Riportiamo la lettera dello storico dell’arte Tomaso Montanari, pubblicata su Repubblica Napoli del 26 gennaio 2016.
Esattamente sessant’anni fa, il 30 marzo 1956, presso il tribunale penale di Palermo fu pronunciata un’arringa difensiva straordinariamente gravida di futuro.
L’imputato si chiamava Danilo Dolci, ed era a processo per aver promosso e capeggiato, insieme con alcuni suoi compagni, una manifestazione di protesta contro le autorità che non riuscivano a trovare lavoro ai disoccupati di Partinico.
In quella manifestazione i disoccupati si dedicarono a sterrare e ad assestare una strada comunale abbandonata, una “trazzera vecchia”: dimostrarono che avevano voglia di lavorare realizzando un bene comune.
Le imputazioni riguardavano la violazione degli articoli 341 (oltraggio a pubblico ufficiale), 415 (istigazione a disobbedire alle leggi), 633 (invasione di terreni) del Codice penale.
L’avvocato difensore si chiamava Piero Calamandrei, ed era uno dei padri della Costituzione repubblicana.
Ecco un passaggio del suo discorso: «Allora, che cosa fanno questi settemila disoccupati: invadono le terre dei ricchi, saccheggiano i negozi alimentari, assaltano i palazzi, si danno alla macchia, diventano banditi? No. Decidono di lavorare: di lavorare gratuitamente; di lavorare nell’interesse pubblico… Il sindaco ci ringrazierà».
Che cosa è questo? È la stessa cosa che avviene quando, dopo una grande nevicata, se il Comune non provvede a far spalare la neve sulle vie pubbliche, i cittadini volenterosi si organizzano in squadre per fare essi, di loro iniziativa, ciò che la pubblica autorità dovrebbe fare e non fa; e la stessa cosa che avviene, e spesso è avvenuta, quando, a causa di uno sciopero degli spazzini pubblici, i cittadini volenterosi si sono messi a rimuovere dalle strade cittadine le immondizie e in questo modo si sono resi benemeriti della salute di tutti. Giustamente uno dei difensori che mi hanno preceduto ha detto che questo è un caso di “negotiorum gestio”: un caso, si potrebbe dire, di esercizio privato di pubbliche funzioni volontariamente assunte dai cittadini a servizio della comunità ».
Non saprei trovare parole più aderenti a ciò che è successo oggi all’ex Asilo Filangieri.
La delibera del Comune che ne riconosce l’uso civico è uno dei (purtroppo non molti) risultati del governo di Luigi de Magistris: un’innovazione giuridica, sociale e politica che viene già vista come un traguardo, in Italia e in Europa.
In un Paese e in una città in cui la norma è l’esercizio pubblico di interessi privati, l’uso civico dell’Asilo è – diciamolo ancora con Calamandrei – un «esercizio privato di pubbliche funzioni volontariamente assunte dai cittadini a servizio della comunità».
Nessuno è escluso, e nessuno comanda all’Asilo: e questo è rivoluzionario in un’Italia che si prepara ad adottare plebiscitariamente il verticalismo autoritario come strumento fondamentale del suo futuro politico e sociale.
È qui che nascono gli attacchi all’esperienza seminale del Filangieri.
La levata di scudi della destra napoletana rivela una paura: e cioè che all’Asilo «l’uso consentito a tutti i cittadini che attraversano il territorio, e comunque all’intera collettività; il funzionamento in base a processi partecipativi; l’obiettivo di una cultura diffusa e includente e di una sostenibilità culturale, finanziaria e generazionale» (cioè i criteri individuati dalla delibera comunale) siano una volta tanti concretamente realizzati.
Se si dimostra – come si sta dimostrando – che a Napoli tutto questo è pacificamente possibile, la disillusione e il disincanto perderanno necessariamente terreno.
È da questo timore che nascono gli attacchi al Filangieri: tutti rigorosamente sferrati in nome della legalità.
Don Luigi Ciotti ha scritto che «sulla legalità abbiamo assistito ad una vera e propria manipolazione. Legalità è ormai parola abusata, svuotata a volte paravento di iniziative ambigue. Oggi c’è molta legalità di facciata, che non ha alcun legame con la giustizia. C’è il rischio di fare della legalità un idolo, uno strumento non di giustizia ma di potere».
Ecco perché la delibera sul Filangieri è pericolosa: perché rimette insieme legalità e giustizia.
«Ciò che la pubblica autorità dovrebbe fare, e non fa», direbbe Piero Calamandrei.