Domenica 28 aprile | ore 16:30 | l’Asilo
Sátántangó, di Béla Tarr
L’apocalisse espansa
Ungheria, ai tempi della fine del comunismo. Una dozzina di individui abbruttiti vive una vita senza speranza in una fattoria collettiva. Ognuno desidera andarsene da quel posto che considera disastrato e miserabile, sperando in un futuro migliore grazie al denaro che riceveranno dalla chiusura della fattoria.
“Uno dei tre o quattro film più definitivi della storia del cinema”, come ha detto Enrico Ghezzi, Sátántangó è un film-mito, l’opera inaccessibile (7 ore di durata) e maledetta (mai distribuita in sala), che in pochi hanno avuto l’opportunità (o il coraggio) di vedere.
Alla base c’è il romanzo omonimo di László Krasznahorkai, autore a cui il regista aveva già attinto trasponendo Kárhozat (Perdizione). Tarr avrebbe voluto girare Sátántangó sin dal 1985 ma fu impossibilitato a causa della situazione politica dell’Ungheria del tempo. La struttura ricalca quella del romanzo e prende spunto, come il titolo suggerisce, dal tango. Il film è infatti diviso in dodici parti e segue lo schema del tango, andando sei parti avanti cronologicamente e sei parti indietro.
SÁTÁNTANGÓ
di Béla Tarr
Ungheria, Germania, Svizzera, 1994
Durata: 420 minuti
Non mi sono mai ritenuto un regista:
pensavo che la mia unica missione fosse cambiare il mondo.
Béla Tarr
Proprio a partire da Sátántangó, che nel 1994 lo impose alla cinematografia d’autore europea, il nome di Béla Tarr è associato all’idea di un cinema della lunga durata, che sfida le regole consolidate della narrazione cinematografica, privilegiando lunghi piani sequenza contemplativi rispetto alla frammentazione del montaggio, e affermando una grammatica filmica essenziale fino all’ascetismo.
In realtà, a concedergli fiducia, l’opera di Tarr si rivela sopra ogni cosa una peculiare esperienza estetica ed emotiva, che dà accesso a un mondo enigmatico (chi entra nel container vede la balena solo in penombra…), pieno di fascino, impregnato di un preponderante senso del tragico. Sospeso tra storia e metafisica, tra politica e assoluto, tra materialismo e trascendenza, il cinema di Tarr, coi suoi tempi morti, i suoi ipnotici movimenti ad esplorare ampie profondità di campo e l’ossessione della durata, ci obbliga ad osservare il visibile che compie il suo micro-lavoro verso la disgregazione, a contemplare una “realtà immota e immutabile, se non fosse per il suo lento dissolversi” (Palozzo).
Per comodità – e forse pigrizia – critica, la produzione del regista, nato nel 1955 a Pécs, è solita dividersi in due fasi. La prima, dagli esordi nella seconda metà degli anni Settanta (con Nido familiare) fino alla fine degli anni Ottanta, è caratterizzata tematicamente da un forte interesse politico e da una critica sociale che ha per bersaglio le istituzioni (soprattutto nelle forme della famiglia e dello Stato). Dal punto di vista formale, si evidenzia qui un forte ricorso ai primi piani e l’uso della camera a mano, che rimandano al linguaggio del documentario e alle esperienze coeve del New American Cinema di Cassavetes e altri.
Nella seconda fase, cui dà avvio Perdizione (1988) fino a Il cavallo di Torino (2011) – che Tarr ha annunciato essere il suo ultimo lavoro – il suo cinema sembra perdere poco a poco ogni radicamento storico e geografico per riferirsi a un assoluto umano, quando non prettamente cosmico. È la fase “matura” di Tarr, segnata da una decisa estetizzazione e dall’abbandono della macchina a mano: la scoperta che il problema è nell’uomo piuttosto che nella società “lascia il posto al piano-sequenza che accomuna, distende, fa proprio ogni singolo essere, spazio incluso, quasi a dire che il male è proprio dell’essere in quanto essere, in quanto generato” (Poor Yorick).
I film di Tarr diventano da qui in poi veri abissi di senso e di sguardo. Il piano-sequenza sprofonda persone, animali, cose, dentro uno spazio-tempo indefinito, una realtà sospesa e inconoscibile destinata a fagocitarli. Nello scenario in rovina a cui è ridotto il mondo, “l’uomo è un elemento del paesaggio, come gli animali, come la pioggia e il fango, come le architetture fatiscenti, tutti sottoposti alla medesima legge del decadimento” (Fidotta). In questa annunciata apocalisse, l’ultima testimonianza non di resistenza ma almeno di esistenza, è affidata a un disperato ma ostinato umanesimo che Tarr va a ritrovare negli ultimi, nei reietti, negli innocenti.
APPROFONDIMENTI
Recensione di Giancarlo Usai
Recensione di Nicolò Vigna
Recensione di Paola di Giuseppe
Nora Demk, Intervista a Béla Tarr
Giuseppe Fidotta, Béla Tarr. Distanza del vuoto
Marco Grosoli, Armonie contro il giorno. Il cinema di Béla Tarr
Michele Palozzo, Béla Tarr. Dell’eterno (non) ritorno
Poor Yorick, Lo spazio ontologico nel cinema di Béla Tarr
Gabriele Prosperi, L’urlo dell’autore: il piano-sequenza nel cinema post-moderno di Béla Tarr e Aleksandr Sokurov
Jacques Ranciere, Béla Tarr. Il tempo del dopo
Patrizia Simone, L’apocalisse immanente
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