S.a.L.E.-Docks assegnato fino al 2020!
Ieri la Giunta Comunale di Venezia ha deliberato la concessione dello spazio dello storico Magazzino del Sale n.2 a S.a.L.E. docks. L’assegnazione dell’immobile ha validità per i prossimi sette anni.
Ciò che oggi sembra quasi “normale”, l’occupazione e la messa in rete di teatri e spazi culturali, nell’ottobre 2007 non pareva nemmeno ipotizzabile, eppure la nascita di S.a.L.E. docks, con l’occupazione ai Magazzini del Sale di Venezia, portava in sé alcuni elementi (soggettivi e di analisi) che avremmo visto svilupparsi solo alcuni anni più tardi. Sostanzialmente si trattava di mettere al centro il tema della cultura, non per vezzo, ma partendo dall’analisi di un contesto cittadino in cui questa era determinante dal punto di vista produttivo, intrecciandosi con altri settori come il turismo, dentro il quadro socio-economico complessivo. Il S.a.L.E. era dunque una risposta nuova dentro e contro la “fabbrica della cultura”, un approccio all’ auto-organizzazione come contrasto alla precarietà eretta a sistema, un progetto che, confrontandosi con la realtà, voleva superare l’approccio classicamente sindacale con la sua riduzione del lavoro culturale a lavoro astratto. Noi artisti, studenti, curatori, attori, designers e tecnici avevamo chiaro un punto, ci serviva un modello di organizzazione che tenesse conto dei nostri corpi, dei nostri affetti, delle nostre vite e dei nostri desideri. Primo fra tutti, quello di fare arte. Per questo il S.a.L.E. doveva essere (ed è stata) una macchina per una produzione culturale che funzionava (e funziona) sovvertendo le regole dell’industria culturale.
La battaglia per il S.a.L.E. ha dato vita ad un processo di de-gentrificazione, la conquista di un “common ground” in una città (e in una zona della città) in cui la pressione turistica, ma anche il rapporto tra industria culturale e rendita immobiliare danno vita ad una violenta spinta centrifuga che respinge chi tenta di vivere e lavorare qui. Che ne sarebbe stato del Magazzino del Sale n.2 se non fosse diventato S.a.L.E. docks? Non possiamo dirlo, ma è probabile che avremmo dovuto raccontare un’altra storia tipica di questo periodo di crisi, quella dell’alienazione di un’altra porzione di città, della vendita di un altro bene culturale che sarebbe stato indifeso di fronte agli appetiti del mercato in una fase di profondo rosso per le casse degli enti locali.
Il S.a.L.E. ha invece raccontato una storia diversa, innovativa e per alcuni versi esemplare. Una storia iniziata nel 2007 con un’occupazione che ha dato vita ad un programma culturale internazionalmente riconosciuto attraverso l’attività di giovani artisti, studenti e operatori culturali della città. La presenza del S.a.L.E. ha significato la costruzione e l’affermazione della natura pubblica, aperta e indipendente di questo spazio così prezioso. L’Amministrazione, con la concessione temporanea di sette anni, riconosce l’importanza di questo percorso e di un modello di gestione comune che si caratterizza come una terza via possibile tra il pubblico e il privato. E’ un precedente importante, una conquista per tutti quegli spazi (da Milano a Palermo) che si battono per un modello differente di produzione culturale e di auto-organizzazione del lavoro e delle vite di tutti gli operatori culturali.
Noi interpretiamo questo passaggio come un nuovo punto di partenza e non come un traguardo finale. Tanto c’è ancora da fare, sia sul piano culturale che politico. Le sperimentazioni in campo giuridico, portate avanti dalla rete degli spazi occupati sulla cultura, sono per noi uno stimolo ad appropriarci di nuovi strumenti che sappiano implementare la possibile partecipazione dei cittadini e l’indipendenza dai tradizionali organi della rappresentanza politica. Del resto, questa autonomia è già, fin dall’inizio, la cifra del S.a.L.E., a partire dall’anomalia fisica di uno spazio situato tra fondazioni pubbliche per l’arte e musei di finanzieri miliardari. Ripartiamo con più slancio dall’anomalia di cui sopra, per sottrarre l’arte e la cultura a chi le maneggia per trarvi profitto e per riportarle ad essere vere e proprie pratiche del comune, motori sociali di trasformazione radicale dell’esistente.