Casa Bettola, 22 giugno 2019; Mondeggi, 29 giugno 2019
Assemblea nazionale della Rete dei Beni Comuni
Report dei tavoli di lavoro
Pubblichiamo il report del secondo incontro della rete nazionale dei beni comuni emergenti e a uso civico, distribuito tra il 22 giugno, a Casa Bettola (Reggio Emilia), e il 29 giugno 2019, a Mondeggi (Bagno a Ripoli). L’incontro fa seguito a quello tenutosi il 17 febbraio a Napoli, all’Asilo.
La rete coinvolge realtà di base che rivendicano e difendono i beni comuni in quanto caratterizzati dalla gestione collettiva diretta o partecipata di risorse che sono essenziali per i diritti fondamentali, o lo diventano in quanto gestite per finalità sociali e mutualistiche. Il percorso è nato da un appello del gennaio 2019, firmato da più di venti realtà, che evidenziava la necessità di rafforzare le lotte sui beni comuni in tutti i territori, attraverso una «piattaforma politica per la condivisione e la continua sperimentazione di pratiche, saperi e strumenti amministrativi capaci di sfidare e superare lo stato di cose presenti».
22 giugno: Casa Bettola (Reggio Emilia)
1) Tavolo “Fatti più in qua” – Comunità dialoganti e democrazia di prossimità. Relazioni tra beni comuni emergenti e territorio: il vicinato, i quartieri, le comunità reali.
Il tavolo ha indagato le relazioni tra beni comuni e territorio: il vicinato, i quartieri, le comunità, la democrazia di prossimità.
Nel tavolo si è aperto un confronto tra esperienze diverse e nello stesso tempo simili: spazi riconosciuti come beni comuni ad uso civico e spazi convenzionati, spazi in stato di occupazione e spazi comunali gestiti direttamente da abitanti del quartiere, ma anche amministratori locali ed esperienze che invece di avere uno spazio come punto di riferimento si organizzano attorno ad una strada o una porzione di città.
Un filo rosso ha accompagnato la discussione: l’importanza di andare oltre gli spazi, di aprire le porte per far entrare la città (i bisogni, i desideri , le contraddizioni e i conflitti) e nello stesso tempo far uscire un nuovo modo di vivere la città (le relazioni solidali e mutualistici, la messa in comune di risorse, la condivisione di conoscenze e competenze).
Dalla discussione emerge che le attività che rispondono a bisogni materiali e desideri comuni più di altri tendono ad aprire gli spazi al quartiere e alla città, come ad esempio le scuole di italiano, lo sport popolare, gli sportelli per i diritti, i percorsi di formazioni, i laboratori, i mercati. Queste attività, nonostante abbiamo caratteristiche differenti, sono accomunate dall’accessibilità, la condivisione e il fare insieme.
Nello stesso modo sono le esperienze che fanno incontrare bisogni e risorse, desideri e competenze, che più di altri permettono di uscire sul territorio (feste popolari, cene all’aperto, educazione di strada, arte pubblica, vertenze per migliorare la vita del territorio). Sono esperienze pratiche che hanno bisogno di essere raccontate per mettere in evidenza la loro valenza politica.
Nella discussione sono emerse domande su cui continuare a riflettere. Come lavorare con la comunità dove già esiste? Come stimolare la costruzione di comunità laddove ancora non c’è? Come creare una continuità nel tempo? Come rendere questi percorsi più partecipati?
Proprio sul tema della partecipazione si è aperto una discussione molto interessante, visto le molteplici interpretazioni del termine. Ci siamo confrontati sull’uso strumentale della parola: il concetto di partecipazione utilizzato come “fluidificante democratico”, un modo per far esprimere il parere dei cittadini su decisioni già prese, dando l’impressione di essere coinvolti nei processi decisionali quando le scelte importanti sono già state fatte. Per questo è necessario una risignificazione della parola.
In alcuni territori si è valutato opportuno prendere parte di laboratori di quartiere e percorsi di bilanci partecipati proposti dell’amministrazione, utilizzando questi spazi per sostenere le esperienze solidali e mutualistiche che emergono dal basso, mentre in altri casi si è scelto di rimanere fuori per contestare questo modello di partecipazione, ritenuto insufficiente e avvolte strumentale.
Ci siamo confrontati sul contesto storico che non favorisce la partecipazione (precarietà, solitudine, frammentazione sociale). Le persone partecipano se la partecipazione è autentica, se è possibile incidere nei processi di trasformazione della città, se si può realmente cambiare la propria vita. La partecipazione soltanto evocata invece produce l’effetto contrario è diventa respingente.
Quando si parla di partecipazione è importante non dimenticare gli abitanti migranti. Per chi è arrivato sul territorio da poco tempo è ancora più difficile partecipare alla vita pubblica e politica della città e si tende ad essere negati la propria soggettività. I spazi ad uso civico e i beni comuni emergenti possono essere luoghi per sostenere questa soggettività e per sperimentare nuove forme di democrazia insieme.
Per rimuovere ostacoli e favorire la partecipazione è necessario utilizzare diverse strumenti, oggi non è sufficiente l’assemblea, bisogna trovare diversi forme.
Una cosa è certa: se uno spazio è considerato insicuro, sicuramente non c’è comunità. Bisogna sviluppare un senso di appartenenza diffuso e partecipazione reale per decostruire la retorica della sicurezza.
In fine ci siamo soffermati su come la partecipazione dipende dal contesto, dal territorio e la sua composizione. Non ci sono modelli da applicare ma approcci che possono essere trasversali anche in contesti differenti. Chi riveste un ruolo di amministratrice si chiede come si possa stimolare forme di partecipazione, senza strumentalizzare dall’alto.
Si può trasporre l’idea di autogestione degli spazi anche sul territorio. Come innescare il desiderio di autogestione? Come rendere evidente questa opportunità a tante persone?
Le esperienze che non nascono dentro spazi fisici offrono tanti spunti interessanti. In assenza di spazi fisici si creano spazi mentali. E’ possibile combattere la mancanza di spazi pubblici anche aprendo le proprie case alla città e si costruiscono nuovi legami attraverso interessi comuni, ad esempio con residenze artistiche nelle case degli abitanti con forme di esposizione negli spazi dei quartieri.
L’immaginario di un quartiere può essere trasformato attraverso iniziative dal basso. Si può cambiare narrazione di un quartiere che nella cronaca viene considerato insicuro. E’ importante stare attenti a non sostenere involontariamente forme di gentrification. Le nostre attività che fanno vivere il quartiere con un approccio solidale e mutualistico possono attirare l’interesse di attività commerciali che portano all’espulsione degli abitanti storici.
Il lavoro sul territorio mette in gioco anche la nostra comunicazione. Come possiamo comunicare più con le persone che abitano vicino a noi e invece di parlare con le persone che idealmente sono vicini ma che abitano in altri territori? Come creare forme di comunicazione digitale georeferenziati? Come trovare forme di comunicazione porta-porta? Sono temi importanti perché oggi la prossimità è anche virtuale.
Per andare oltre il singolo quartiere si propone di stimolare la cooperazione tra diversi contesti cittadini e nello stesso modo di condividere pezzi di pratica tra esperienze in diversi territori.
2) Tavolo “Verde & rosso” – I colori dell’economia circolare. Relazioni tra beni comuni emergenti ed economia: mercati, osterie, coworking, attività che producono reddito, cooperazione di comunità, un diverso paradigma economico.
Partiamo dalla considerazione che questo Tavolo ha prodotto molte domande – anche nuove rispetto a quelle che sono state poste inizialmente – e poche risposte. Al di là dell’evidenza, emersa dalla discussione, che non è facile in un primo incontro – con tante persone che non si erano mai scambiate esperienze ed opinioni – affrontare questioni così complesse trovando già delle risposte e dei punti di sintesi, si è riflettuto sul fatto che l’elaborazione riguardante gli aspetti economici delle nostre esperienze non è particolarmente “avanzata”. Si è parlato molto di economie che producono cibo, affrontando l’importante e delicata questione del reddito, ma anche quella cruciale del lavoro: realtà che fanno del mutualismo una bandiera non possono non tenere in grande considerazione i diritti di chi lavora.
Una discussione molto interessante e coinvolgente ha riguardato il costo dei prodotti (ad esempio, pane, birra, etc.). Comprensibilmente, se non si chiarisce il processo che determina i prezzi bassi praticati nella grande distribuzione e, allo stesso modo, non si condivide e non si rende comprensibile tutto il lavoro che “sta dietro” le nostre produzioni e attività di servizio, non sarà possibile far emergere il “valore” del processo virtuoso e della qualità dei
prodotti che caratterizza la realtà dei beni comuni emergenti. La non accessibilità ad alcuni prodotti delle persone meno abbienti non sarà compresa e creerà un forte distacco tra fasce di popolazione che per prime dovrebbero essere coinvolte nella progettualità dei beni comuni emergenti ma non hanno i mezzi per poter fruire dei prodotti in questione e persone che invece possono facilmente accedervi.
Questa dicotomia andrebbe risolta creando circuiti economici indipendenti dall’economia capitalistica, ma una delle difficoltà con cui dovremo sicuramente fare i conti è che non abbiamo ancora metodi alternativi all’uso del denaro, pur in presenza di alcune esperienze di baratto e di monete locali di un certo interesse (vd. ad esempio i BUS, una forma di moneta complementare che sta sperimentando Mag 6, realtà cooperativa impegnata nella promozione di esperienze di economia solidale). Su questo tema, ma non solo, si è evidenziata l’esigenza di una comunicazione chiara e trasparente, che consenta di farsi conoscere e di far trasparire la natura e il modus operandi delle nostre realtà, e che cosa sta dietro i meccanismi economici caratterizzanti le nostre pratiche di lotta e di sperimentazione di alternative ai modelli correnti, rendendo ad esempio visibile il ‘prezzo sorgente’. L’incontro a Poveglia, già ipotizzato per il prossimo autunno, dovrebbe sviluppare la riflessione su questi importanti contenuti.
C’è poi una parte di responsabilità che sollecita un’elaborazione personale – sia a livello di attivist*e cittadin* che agiscono in situazioni collettive sia a livello di singoli soggetti – e riguarda in particolare l’esigenza di una maggior sobrietà nei consumi e di uno stile di vita più attento allo spreco di risorse, sempre più limitate nell’economia del pianeta. La sostenibilità di questi progetti dovrebbe soprattutto far leva sulla produzione derivante dalla coltivazione degli orti urbani, esperienza che sarebbe importante estendere in tutti i territori liberi da ‘ipoteche’ e vincoli privati.
Il lavoro di riproduzione sociale, di cura (dei terreni, degli immobili, degli spazi reali e virtuali, delle persone…) è stato affrontato in un’ottica di redditività e plusvalore sociale e di problematiche legate alla sua “invisibilità” e al suo disconoscimento non solo nell’economia predatoria e patriarcale del sistema capitalistico, ma purtroppo talvolta anche nei nostri progetti e spazi, dove non sono ancora presenti modalità adeguate per garantirne il riconoscimento, la valorizzazione sociale, la comunicabilità pubblica.
La relazione osmotica tra interno ed esterno è stato un altro dei temi emersi con maggior forza. Alcune forme di produzione di ricchezza e di reddito che per l’esterno sono ai limiti della legalità, quando non apertamente illegali (ad esempio, la produzione di cibo e gli eventi gastronomici per l’autosostentamento o la vendita diretta di prodotti nei mercatini, al di fuori della fiscalità pubblica), devono essere raccontate in modo che il “mondo là fuori” ne comprenda la natura solidale e il valore sociale di mutuo aiuto e scambio equo ispirato ai valori della solidarietà.
Nell’intensa discussione sono emerse due sensibilità politiche diverse, che in alcuni interventi si sono intrecciate e articolate: una sensibilità particolarmente attenta alle problematiche dell’ecosistema, dell’ecosostenibilità e del rispetto/conquista dei diritti ambientali, un’altra con uno sguardo più rivolto alla difesa dei diritti sociali e del lavoro. I progetti che mettono al centro il costrutto dei beni comuni emergenti devono “guardarsi” dal rischio di privilegiare l’uno o l’altro punto d’attenzione, cercando di integrare entrambe le prospettive
3) Tavolo “Né di qualcuno né di nessuno” – Strumenti per la gestione diretta: forme di autonormazione, scritture di carte per l’uso civico, processi assembleari.
Il tavolo nasce come una riflessione sui processi di scrittura delle Dichiarazioni d’uso, con cui cerchiamo di identificare e chiarire – innanzitutto a noi stess* – le modalità di autogoverno e organizzazione dei beni comuni.
Certo, la Dichiarazione d’uso serve anche al riconoscimento giuridico dell’uso civico, ma ha un obiettivo politico che prescinde dal diritto, ed è quello di capire come essere noi stessi beni comuni prima che ci riconosca l’Amministrazione. Altrimenti l’uso civico diventa un istituto giuridico vuoto.
L’esigenza alla base delle Dichiarazioni è quella di privilegiare il processo di condivisione politica e messa in rete delle competenze, evitando il rischio della ‘dittatura della presenza’, cioè la tendenza per cui – che lo vogliamo o meno – spesso chi cura ogni giorno lo spazio, e si prende più responsabilità, finisce per prendere decisioni su tutt* quant* quell* che usano e rendono vivo lo spazio stesso, partecipando alle attività e ai percorsi mutualistici.
Quindi i processi di scrittura servono anche come processi di autoriflessione, per identificare i propri luoghi decisionali e renderli noti e aperti a tutt*, evitando gli automatismi per cui a volte, ad es., è più facile partecipare e proporre qualcosa se si hanno conoscenze personali o si è già nel circuito del movimento.
E in tutti i casi le assemblee pubbliche in cui si sono scritte le Dichiarazioni hanno portato forze e messo in rete competenze dai quartieri che hanno arricchito i processi.
Il problema che pone la scrittura delle Dichiarazioni è come coinvolgere realmente tutt* in modo orizzontale, perché è chiaro che non basta la ‘porta aperta’.
Un primo nodo problematico è quello della responsabilità individuale. Abbiamo molti spazi autogestiti dove, per la chiusura delle Amministrazioni, le esperienze sono costrette a usare strumenti giuridici che non sono in grado di riconoscere la natura aperta e orizzontale dell’autogoverno, ma richiedono necessariamente dei referenti e responsabili (un soggetto giuridico o un insieme di singol* abitanti). Funzionano così, ad esempio, le concessioni e i patti di collaborazione.
Questo crea un problema anche nell’autogestione, perché – anche quando la volontà collettiva è avere comunque un autogoverno aperto e orizzontale – chi si assume la responsabilità finisce inevitabilmente per avere più potere, perché chiaramente è difficile per l’assemblea prendere decisioni sulla sua pelle senza il suo accordo.
Per affrontare questi problemi c’è bisogno di riflettere collettivamente nella rete su temi come:
– il numero di persone che si prendono la responsabilità. Da un lato c’è spesso l’idea che avere più responsabili possa essere un modo per esprimere solidarietà tra le stesse persone responsabili, e finisca per dare loro maggiore forza. Dall’altro lato, legalmente si finisce per esporre più persone;
– ‘hackerare’ gli strumenti di concessione/patto di collaborazione con filtri che potrebbero in qualche modo tentare di inceppare il meccanismo della responsabilità individuale (ad es., riconoscere negli Statuti dei soggetti giuridici che i soggetti stessi non possono essere considerati responsabili degli spazi, e chiarire negli Statuti e nelle Convenzioni/Patti che le decisioni sono assembleari).
Un altro tema fondamentale è quello della depatriarcalizzazione della politica, intesa come cura delle relazioni e messa in questione sostanziali delle posizioni di potere e di privilegio che possono crearsi o replicarsi negli spazi.
Su questo possiamo già basarci sul report del tavolo ‘fare comunità’ della prima assemblea della rete, che è già una base di partenza.
Inoltre, è utile iniziare a dotarci, anche in rete con altre realtà europee, di alcune specifiche domande che possiamo porci e strumenti pratici che possono servirci a individuare le dinamiche patriarcali ed escludenti nei nostri spazi. A partire da strumenti di analisi molto semplici: es., cronometrare gli interventi, capire quanti sono di italiani e quanti di stranieri, quanti di uomini e quanti di non uomini, quanto della cassa dell’organizzazione va ad attività che si riferiscono al genere, quanto si è parlato di procedure di soluzioni dei conflitti
… Ma anche oltre: non basta riflettere sul collettivo, su come creare un cerchio safe, sicuro, nell’assemblea, dobbiamo capire come liberarci di alcuni automatismi quando usciamo dal cerchio.
Alcune esperienze hanno fatto delle autoformazioni sul tema del consenso di temi politici che strutturano il collettivo. Altre stanno lavorando per settembre ad avere un toolkit, che potrebbe essere costruito insieme o comunque condiviso con le realtà.
La discussione sicuramente non è esaurita, e ci lasciamo con alcune proposte per il lavoro futuro:
– creare con urgenza un qualsiasi strumento di condivisione di documenti all’interno della rete;
– trovare un prossimo momento nazionale della rete per parlare di autogestione/gestione dell’assemblea. In queste occasioni si potrebbero anche chiamare espert* che lavorano sulla facilitazione.
29 giugno: Mondeggi (Bagno a Ripoli – FI)
1) Tavolo “giuridico” – Diritto e rovescio: dal capovolgimento alla ri- scrittura del diritto
Anche per esperienze nate dal basso in modo conflittuale ha senso parlare di strumenti giuridici, e questo non vuol dire accettare la strumentalizzazione da parte dell’autorità amministrativa. Le ragioni della riflessione giuridica partono dall’idea di usare il percorso conflittuale anche per ‘hackerare’ il diritto stesso, creando nuove istituzioni che facciano anche da precedente per altre realtà dove il rapporto di forza con l’istituzione non è altrettanto favorevole. L’autogoverno – e quindi una comunità che si autonorma – è un problema per l’autorità, perché dimostra che le ‘masse’ non sono soggetti passivi, ma possono autogestirsi e darsi delle modalità di convivenza, e questo può dare qualche grattacapo al potere costituito.
Parlare di strumenti giuridici per la gestione dei beni comuni non vuol dire trascurare altri temi, altrettanto cruciali, che potremmo affrontare in futuri incontri. Tra questi, ad esempio:
• l’apertura e fruibilità degli spazi pubblici, che sempre più spesso sono soggetti a regolamentazioni repressive. Queste restrizioni finiscono per colpire solo le esperienze e persone svantaggiate, perché invece a chi paga sono consentiti anche usi molto spregiudicati degli spazi urbani, mentre le persone comuni a stento possono viverli in modo spontaneo.
• le economie, di cui si è parlato a Reggio Emilia la settimana passata, ripromettendosi di riparlarne al prossimo appuntamento della rete.
• l’educazione e l’autoformazione, intese come spazio politico. Questo dà anche la forza di essere tutt* capaci di fare un confronto a ogni livello.
• il tema della redditività civica, e quindi come possiamo dotarci di strumenti che lascino emergere il valore culturale e sociale dei beni comuni, senza che questo sia un invito per qualcuno a tentare di monetizzare questo valore e quindi vendere, mettere a reddito o comprare gli spazi per farne un uso esclusivo e gentrificante.
Per quanto riguarda il diritto, il tavolo riprende il discorso a partire da alcuni spunti emersi dall’assemblea di Napoli del 17 febbraio, in particolare:
• una risposta unitaria per emendare e implementare i regolamenti dei beni comuni in
vigore in molte città;
• un dialogo da tessere, anche con realtà nazionali, per richiedere il riconoscimento degli usi collettivi negli strumenti urbanistici.
Per quanto riguarda la relazione con i regolamenti di cura e amministrazione dei beni comuni, si iniziano a porre alcune basi per un futuro lavoro, da fare insieme in sedi più operative. In particolare:
1. l’uso civico dovrebbe stare nei Regolamenti come strumento separato rispetto a quello dei patti di collaborazione, per evitare di generare confusione tra strumenti ben diversi, peraltro in campi che sono già molto tecnici e quindi difficilmente accessibili;
2. per l’uso civico è necessario che si maturino pratiche d’uso dello spazio, perché soltanto da esse possono nascere le Dichiarazioni d’uso; dall’altra parte, Labsus e i Comuni hanno difficoltà ad ammettere di poter riconoscere esperienze nate da occupazioni (sebbene sia possibile, potenzialmente, fare un lavoro su questo tema, riferendosi alle sentenze della Cassazione che hanno fatto salva la legalità delle occupazioni quando sono aperte e generano redditività civica e sociale). Quindi, se ci sono difficoltà, si potrebbe proporre di autorizzare l’uso e gestione dello spazio per un periodo di ‘sperimentazione’, cioè per il tempo necessario a maturare le pratiche d’uso dello spazio stesso e quindi scrivere le dichiarazioni;
3. bisogna inserire il riferimento alla redditività civica nei principi generali e, a ogni livello, bisogna inserire specifiche previsioni che assicurino i principi dell’antifascismo, antirazzismo, antisessismo.
In particolare, il lavoro da portare avanti potrebbe svolgersi su un doppio piano:
• sul piano locale, negoziando gli emendamenti sulle proposte di Regolamento in corso di approvazione nei diversi Consigli comunali;
• sul piano nazionale, interloquendo con LABSUS per cercare di far cambiare il prototipo.
Per quanto riguarda gli strumenti urbanistici, essi si rendono necessari per smontare più in profondità il rapporto proprietario escludente che si instaura tra il bene e chi ne è proprietario. In questo caso la prima operazione da fare è capirci sul lessico, perché tante definizioni e nomenclature cambiano a seconda dei territori, perché le discipline urbanistiche sono diverse da Regione a Regione. Vi sono inoltre diverse proposte su cui lavorare:
• introduzione dell’uso civico tra gli standard urbanistici. Questo potrebbe funzionare in alcuni casi, come nei centri storici aggrediti dalla rendita (es., Venezia). Ma è dubbio che possa funzionare sempre, perché normalmente gli standard hanno una diversa ragion d’essere, e cioè quella di arginare il saccheggio urbanistico. Anche politicamente ci sono dei dubbi, perché gli standard sono una dotazione minima obbligatoria per le città,
mentre il riconoscimento dei beni comuni dovrebbe essere legato all’iniziativa libera della comunità.
Inoltre, lo standard è uno strumento che può essere utile per riconoscere l’esistente, ma è difficilmente applicabile per il riconoscimento di tutto quello che viene dopo che si è stabilito lo standard.
• lavorare alla modifica del decreto 1444/1968 per introdurre un fondo per salvaguardare elementi sociali, ecologici e ambientali del territorio. Sarebbe una possibilità per riprendere il concetto di demanio collettivo/demanio civico per contribuire alla salvaguardia del territorio e dell’ambiente, e quindi rendere possibili relazioni ecologiche e sociali. In questo senso, è essenziale anche collegarsi ai movimenti ambientali per portare queste discussioni.
• intervenire sulle normative regionali di attuazione del governo del territorio, introducendo la possibilità di una gestione civile e collettiva.
• interloquire con l’ANCI per promuovere l’aggiunta dell’uso collettivo tra le destinazioni d’uso degli spazi.
2) Tavolo “comunicazione” – Comunità dialoganti e relazioni di prossimità
Nota di metodo: si è scelto di scindere i problemi di comunicazione lungo una linea discorsiva e due punti fondanti:
1. Creazione di un glossario comune, disambiguazione
2. Darsi strumenti comunicativi comuni.
Creazione di un glossario.
La scrittura di un dizionario comune risponde all’esigenza di disambiguare alcuni termini che appartengono ad un lessico emergente. Una semantica cristallizza delle evocazioni, diviene pertanto un tassello fondante di una nuova narrazione. Ci siamo soffermati su alcune linee guida di questo processo di scrittura collettiva.
1. depatriarcalizzazione: porsi il problema d’un lessico che si allontani sempre più da pratiche di dominio di genere.
2. evolutività. Un glossario su un terreno evolutivo é evolutivo a sua volta, l’editing sarà quindi necessariamente processuale, continuo.
3. fruibilità: obiettivo imprescindibile.
4. apertura: tutti, indipendentemente dal grado di coinvolgimento, debbono aver modo di contribuire. Desegregazione.
5. depolarizzazione: pur nel formale rispetto dei contenuti tradurre la natura poliedrica in valore, ricorrendo ai criteri di avalutatività/imparzialità di Wikipedia
6. passione, favole, canzoni: ove possibile sia centrale un approccio relazionale, che fornisca anche strumenti di intervento formativo nelle scuole (es. La definizione di Bene comune)
La proposta operativa è creare un tavolo di autoformazione e concettuale sul glossario per poter gestire a più mani uno spazio Wikipedia (sull’onda del progetto wiki di remix commons)
Strumenti comunicativi comuni
La nostra comunicazione risente di una eccessiva focalizzazione testuale, dobbiamo osare terreni intermedi, uso di video, grafiche, dazebao, cantastorie. Lo scopo è di superare il muro del silenzio che circonda le nostre esperienze, smontare dal basso e dall’alto la loro marginalizzazione mediatica, portare i nostri temi nei bar, oltre il muro delle appartenenze. La creazione di una redazione nazionale che editi materiali comuni, pur essendo un obiettivo strategico, ci vede favorire oggi piuttosto una dinamica relazionale, premessa ad un lavoro redazionale in fieri.
Una proposta operativa in ambito grafico/contenutistico/tipografico potrebbe consistere nella costruzione di materiali, frutto del lavoro parziale delle realtà ma inquadrati in un format comune che possano essere ristampati dalle realtà locali, a cadenza mensile. Ad esempio con la produzione di dazebao artistici e tematici al tempo stesso, da produrre in sequenza e atti ad essere riprodotti dai nodi del circuito, affissi in spazi pubblici, attivatori di conoscenza reciproca.
Le linee guida di questa comunicazione che tende a divenire strumento condiviso potrebbero essere:
1. egemonia non aggressiva: lavorare alla diffusione di temi ora lasciati ai margini ma capaci di fortissima evocazione maieutica.
2. inclusività: uso di un lessico popolare, non escludente su contenuti chiari.
3. rigore e gioiosità: dati e ricerca, pathos. Da opporre alla narrazione tossica dell’ideologia dominante.
4. superamento dialettica interno/esterno: oggettivamente I nostri luoghi sono anche luoghi di attraversamento, partecipazione e apertura, stabilire confini tra l’interno e l’esterno alla lunga è controproducente, autosegregante.
5. battaglia contro i pregiudizi: pur nella consapevolezza che una linea di diffidenza rimarrà.
6. critica: la critica va considerata utilità strategica, tra realtà va focalizzata alla partecipazione, al photos.
L’assemblea plenaria del pomeriggio – dopo la restituzione collettiva dei due tavoli – delibera la formazione di quattro gruppi di lavoro, attualmente in fase di costituzione, che approfondiscano i seguenti argomenti:
1. Gruppo di lavoro “Regolamenti di gestione dei beni comuni”
2. Gruppo di lavoro “Beni Comuni e Urbanistica”
3. Gruppo di lavoro “Glossario comune”
4. Gruppo di lavoro “Strumenti digitali di comunicazione e condivisione”
Vengono inoltre definiti i prossimi appuntamenti:
1. fine settembre a Poveglia (VE): prossimo appuntamento della Rete Nazionale dei Beni Comuni (per quella data si auspica che i gruppi di lavoro siano già stati formati, si siano incontrati ed abbiano elementi concreti da portare in discussione)
2. sabato 5 ottobre a Bari (Bread & Roses): Workshop sulla gestione collettiva dei beni comuni, nell’ambito dell’incontro nazionale di FuoriMercato