Lo spazio dei buoni incontri
di Maurizio Zanardi
Senza lamentazioni, ribellismi urlati e impotenti, a rigorosa distanza dal “politico”, per meglio “vedere” e decidere, con un gesto incalcolabilmente più forte e autonomo di ogni opposizione, ché l’opporsi è ancora vincolato a ciò che contrasta, in questi mesi si è costruito all’ex asilo Filangieri uno spazio “inconcepibile”, “impossibile”. Impossibile per chi s’era abituato a credere che nessuna chance hanno in città le arti, le pratiche di pensiero, se non c’è un potere che ti dà spazio e ti concede possibilità.
L’esperienza dell’Asilo ha rotto con la logica della richiesta e dell’attesa di risposta, con la disponibilità a mettersi in balia di chi decide, con la preoccupazione che la richiesta di spazio sia compatibile con le aspettative di chi lo spazio lo amministra. Una tale logica, lo sappiamo, ha segnato la vita di molti in questi anni a Napoli e l’ha gettata in una solitudine spesso risentita e fatalista. Ma basta che qualcuno interrompa l’andamento delle cose e il fato d’improvviso decade, mostrandosi per quel che è: nulla di definitivo, di oggettivo, di cui si tratterebbe solo di prendere atto, ma una rinuncia volontaria, un credere nella potenza di forze superiori che renderebbero vano ogni agire.
L’esperienza dell’Asilo ha interrotto il fatalismo, il sentimento di inesistenza che intristisce; ha provato non solo che una lotta per lo spazio è praticabile, ma, più radicalmente, che ciò che era ritenuto impossibile è in verità possibile: la costruzione collettiva di uno spazio poroso, ospitale, capace di favorire ciò che è proprio delle arti: il pensiero, il pensiero all’opera. Favorire il pensiero all’opera più che l’opera. Non è una caso che l’asilo abbia ospitato, anche in contemporanea, una serie incredibile di laboratori, di pensieri all’opera, offrendo finalmente a che desideri condividere una sperimentazione – un allestimento, una maestria, una macchinazione – uno spazio “degno”, non miserabile, come è stato detto in una delle più recenti assemblee. Uno spazio per chi voglia tentare l’acquisizione non solitaria della “virtù” artistica.
E sempre più poroso sarà lo spazio dell’Asilo, quanto più darà “asilo” all’arte in quanto apparizione di “strani” concatenamenti, creazione di lingue straniere nella nostra lingua madre, spostamento dei confini e delle partizioni del sensibile. Tanto più sarà spazioso, quanto più favorirà non solo i buoni incontri tra le arti, ma anche quelli con altre pratiche, la filosofia ad esempio, come avvenuto nell’intenso e trascinante incontro con Claudio Morganti o con l’introduzione di Mario Pezzella al “Faust” di Sokurov. Occasioni grazie alle quali anche la filosofia ha potuto incontrare ciò che non le appartiene, ma senza il cui “tocco” non farebbe che girare a vuoto.
Dove si è dato nel passato in città uno spazio collettivamente, anonimamente, allestito per i buoni incontri, non pregiudicato da discorsi che tentassero di profittare delle pratiche ospitate, secondo interessi del tutto estranei alla singolarità di quelle prassi? Sappiamo quali “cattivi incontri” si siano fatti nelle spazi istituzionalmente dedicati alla promozioni delle arti, piegate alle esigenze della macchina comunicativa, del governo dei piaceri, dell’edificazione di un capitale d’immagine da investire nel mercato politico internazionale.
Spazio poroso non significa spazio a tutto aperto. Nulla più di uno spazio che voglia mantenersi spazioso richiede scelte rigorose, perché basta che si dia adito alla volgarità, alla stupidità, al cattivo incontro, perché lo spazio si chiuda, si faccia compatto, come compatta è la stupidità. E’ questa la posta in gioco all’Asilo: insistere nella costruzione di uno spazio dei buoni incontri, che potenzino la forza di agire e sperimentare. E visto che si parla tanto di “beni comuni”, conviene affermare, proprio imparando dalla concreta esperienza dell’asilo, che il bene non è una “cosa” ma una prassi. Non qualcosa di già esistente, di cui si tratterebbe di riappropriarsi, ma innanzitutto un agire collettivo da inventare. Un agire che non preesiste alla sua comparsa. Intorno al bene-cosa si scatenano inevitabilmente dinamiche appropriative: ognuno tenta di strappare una parte, un frammento, del bene. Il bene-cosa viene “sbranato” per essere diviso tra i gruppi, gli interessi particolari, i poteri esistenti. Il bene come prassi è, all’opposto, inappropriabile e indivisibile, perché, fin quando la prassi è all’opera, essa coincide con l’autonomia e l’insieme dei gesti di chi la esercita. Per essere chiari, se c’è un bene, questo non è l’edificio “asilo filangieri”, di cui si può fare un pessimo uso, ma la pratica che lo inventa come luogo di buoni incontri. Bene è che a Napoli ci sia stata l’esperienza dell’ex asilo Filangieri. Ed è bene che continui, all’Asilo e in altri luoghi.