Riportiamo qui l’operato dei tre tavoli di lavoro dell’assemblea del 17 febbraio: sul fare comunità, l’uso del diritto e la creazione di una piattaforma comune.
Poco meno di un mese fa si è riunita all’ex Asilo Filangieri la nascente rete dei beni comuni italiani, con l’obiettivo di rafforzarne consapevolezza, rapporti e strumenti. All’appello lanciato il 18 dicembre – scritto a seguito di una proposta di legge popolare atta a regolamentare proprio i beni comuni – hanno risposto 46 realtà da tutto il territorio. Siamo partiti da questa critica, ma siamo andati oltre, consapevoli che solo così si possa riuscire a costruire qualcosa che possa davvero servire alla difesa delle risorse naturali e delle comunità in lotta in tutto il territorio per il diritto alla città.
Dopo un’introduzione che ha collocato la lotta per i beni comuni nell’attuale contesto sociale e politico, l’assemblea si è suddivisa in tre tavoli di lavoro:
- il tavolo sul fare comunità, che ha discusso su come organizzarsi orizzontalmente e in forme inclusive, quali pratiche adottare per sviluppare forme organizzative e decisionali, risolvere conflitti, ibridare le competenze, curare le relazioni.
- il tavolo sull’uso creativo del diritto, per sviluppare tattiche amministrative per sfidare gli enti territoriali sulla legittimità degli usi collettivi e delle forme di gestione diretta degli spazi urbani.
- il tavolo sulla piattaforma comune, che ha individuato gli strumenti digitali per moltiplicare e scambiare le pratiche dentro e fuori i beni comuni urbani.
Riportiamo qui quanto discusso dai tavoli durante la giornata, invitando a scrivere a benicomuni.incomune@gmail.com per chiarimenti e altro materiale.
Tavolo fare comunità
Un primo momento del tavolo è stato dedicato all’emersione e alla discussione dei problemi che una comunità può incontrare nel suo percorso di costruzione. Si sono poi elencate e condivise strategie positive che i beni comuni possono mettere in campo per facilitare questo percorso.
È emersa subito l’importanza delle relazioni col territorio. Si è consapevoli che i mutamenti economici-urbanistici cambiano abitudini, principi, le vite nel quotidiano… e che in un certo senso, si è costretti/e in meccanismi individualizzanti. Come non restare chiusi, isolati e trovare relazioni per affrontare la realtà? Quali sono le strategie che si possono usare, oltre la lotta per cambiare il modello capitalista?
Il problema «fare comunità» non riguarda il singolo spazio, limitato all’interno delle piccole realtà, ma anche ciò che ci circonda (l’abitare, la crisi economica, l’ambiente…). Come si può operare per estendere le pratiche di auto-gestione e di mutualismo al territorio? Le comunità non devono essere definite in una logica ristretta, ma in relazione agli accadimenti: l’uso non esclusivo del luogo va esteso, vissuto oltre gli spazi, anche al fine di estendere le pratiche e/o condividere con altre realtà, che hanno pratiche diverse. Si fa comunità con il desiderio di creare una rete territoriale dei beni comuni per più visibilità ed efficacia alle pratiche che mettiamo in campo per ridurre i danni ambientali, sociali e economici e per avere una società più giusta e allo stesso tempo un territorio meno frammentato.
Quali sono i nostri bisogni sul territorio? Da questo ragionamento sui bisogni si può collegare il tema della cura delle relazione – un tema particolarmente vivace nelle nostre realtà comunitarie – poiché si reclama una nuova dimensione politica che sperimenta, intrinsecamente, una maniera diversa di relazionarsi di quanto la politica tradizionale offre e propone.
Tutti/e sembrano d’accordo che i conflitti devono essere esplicitati con una pratica di attraversamento e affrontati collettivamente, trovando modalità per ridurre le violenze verbali e fisiche, oltre che di genere, che il sistema fa subire e che ognuno/a vive soggettivamente. Diversi racconti hanno messo in evidenza che dei conflitti emergono proprio all’interno delle nostre comunità, come la questione dell’abitare fisicamente lo spazio considerato bene comune, pratica che avvia meccanismi di privatizzazione e di sopravvivenza. Le comunità devono creare delle “regole” per affrontare i conflitti interni? Come la comunità agisce di fronte alla violenza, che è la reale sfida collettiva?
Un’altra questione, che possiamo legare alla cura delle relazione, è l’assistenza sociale. La difficoltà sta nel fatto che le nostre comunità possono diventare luoghi di delega delle istituzioni, vissute come servizi sociali. Come si può fare per scardinare il rapporto di forza che si determina tra quelli che sono attivisti e quelli che vivono nel bisogno? Un primo passo sarebbe di inventare pratiche diversificate per rendere più forte la voglia di partecipazione e contemporaneamente responsabilizzare le persone, lasciando una libertà soggettiva di azione/pratica di fronte alle diversità della comunità.
È stato affrontato diffusamente il tema del ruolo dell’assemblea: A cosa serve l’assemblea? Che ruolo ha all’interno di una comunità aperta? L’assemblea può essere vissuta come momento di disagio: come fare per rendere più “attraenti” le assemblee? Come fare per moltiplicare i/le partecipanti al percorso collettivo? Importante è la partecipazione, perché la scarsa partecipazione all’assemblea può condurre a forme di delega, di leaderismo.
In risposta ai diversi temi trattati c’è il desiderio di creare un nuova politica in-comune e di estendere il movimento dei beni comuni. Risulta che il nostro processo sperimentale attraversa sia una fase lenta – perché dobbiamo capire che cosa vogliamo per noi, per i luoghi, per i territori, come affrontiamo realtà politiche, culturali, economiche, sociale presenti e future – sia una fase più veloce – poiché dobbiamo e vogliamo agire sul territorio in maniera diretta. Come agire oltre la lotta in strada? Come estendere il movimento ? Sono domande molto impegnative che richiedono teorie oltre le pratiche, perché si origina un movimento politico dal basso a partire dai propri bisogni e dalla propria originalità, che servirebbe a dare visibilità per gli spazi che hanno bisogno di sostegno politico, per incontrare altre realtà politiche che non conosciamo ancora e per creare una sensibilità estesa a livello internazionale. Come comunicare tra interno e esterno delle comunità?
Si può dire che il tavolo comunità ha espresso il desiderio di ragionare su strumenti concreti per fare comunità, ponendo la fiducia e il consenso come metodo primario per avviare progetti democratici; di praticare davvero anticapitalismo, antifascismo, antirazzismo e anti-sessismo in una formula propositiva di mutualismo, scambio, reciprocità. Quale sarebbe il materiale per sconfiggere l’attitudine alla competizione?
Fra le pratiche concrete da mettere in campo è emersa la proposta di svolgere workshop sui privilegi (economici, culturali, di genere), o di svolgere esperimenti interni, ad esempio cronometrando i tempi di intervento, utile per svelare gerarchie o altre dinamiche di potere interne all’assemblea. La cura delle relazioni interne è stata collegata alla necessità di depatriarcalizzazione della politica, prospettando una cultura radicalmente altra, estranea a valori neoliberali. Un’altra possibilità è prevedere un’assemblea o un tavolo di lavoro periodico dedicato al ragionamento sull’inclusività assembleare e sui rapporti umani all’interno del bene comune, eventualmente con la presenza di facilitatori/facilitatrici con esperienza professionale nella risoluzione dei conflitti; sono state ricordate le potenzialità del gioco e della recitazione come modi diversi di espressione personale e relazionale.
Dobbiamo giocare con nuove forme di socializzazione: è stato sollevato l’esempio dei 10.000 infermieri in Olanda che hanno creato, in risposta alle difficoltà burocratiche e allo scarso tempo passato con i pazienti, un organizzazione orizzontale e paritaria che rimette al centro l’assistenza delle persone.
È stata infine più volte rimarcata la necessità di mantenere la comunità aperta e attraversabile, e di non vivere il comune in una logica di proprietà. L’apertura è considerata un carattere fondamentale per consentire l’emersione autonoma dei bisogni a partire dal tessuto sociale in cui il bene comune nasce, cresce e interviene.
Tavolo uso creativo del diritto
Dopo un rapido giro, riconosciamo che partiamo da esperienze e percorsi diversi. Quelli che percepiamo e rivendichiamo come beni comuni urbani (e rurali!) sono spazi in genere abbandonati o sottoutilizzati, ma che possono essere anche al centro di grandi tentativi di speculazione, svendita e utilizzo privatistico da parte di diversi attori istituzionali ed economici. Le differenze sono nella natura strutturale dei beni, nel loro assetto proprietario, in alcune attività che indirizzano le destinazioni d’uso (ad esempio la vocazione abitativa), nella presenza di soggetti giuridici definiti o comunità totalmente informali, etc. Ma le similitudini sono molte di più…
Riconosciamo, perciò che ci sono tanti punti che fanno emergere questi beni come comuni e su cui vogliamo lavorare insieme, per creare una rete forte tra realtà tanto eterogenee. Riportiamo quindi, al netto di una discussione molto ricca che ha riguardato anche altri aspetti, i punti che in modo condiviso abbiamo portato alla plenaria conclusiva non come una linea o una proposta singola, ma un insieme di spunti su cui possiamo avanzare, anche attraverso l’aiuto della piattaforma di cui stiamo discutendo nel tavolo a fianco. Naturalmente, l’aspetto giuridico sarà solo una parte di quello con cui ci lasceremo in questa assemblea, coscienti del fatto che le forme giuridiche sono solo una delle tante modalità espressive delle nostre pratiche e del nostro ‘fare comunità’, e devono tenersi aderenti a queste ultime.
Prima di tutto, individuiamo alcuni temi centrali su cui ragionare:
- “fare comune” anche col coinvolgimento di attivisti e professionisti del settore sul problema della sicurezza e l’agibilità degli edifici. Immaginando magari di mettere nella piattaforma un elenco di architetti e altri che possano aiutarci a lavorare su questi profili che sono importanti per la sicurezza di chi attraversa i beni comuni, ma al tempo stesso essere fermi nel contrastare i tentativi di strumentalizzarli, potendo diventare la perfetta scusa per reprimere le esperienze di autogestione;
- economie. Abbiamo ragionato sull’“autosfruttamento” del lavoro volontario che facciamo ogni giorno nei beni comuni, sullo sviluppo di economie non competitive nelle nostre esperienze, l’emersione della loro redditività civica, cioè del valore non monetario che esse producono. Questi sono aspetti importanti, sul primo a MACAO (il 14/15 giugno vedi sotto) ci sarà un incontro dedicato; sulla redditività civica importante procedere a costruire dossier condivisi delle attività, in modo da sostenere anche con la forza dei “numeri” l’evidenza dell’uso plurale e non esclusivo degli spazi;
- Percepire come problema collettivo anche le responsabilità individuali degli enti e quelle degli amministratori. Bisogna capire come coinvolgere le parti più avanzate della PA, perché anche queste sono sotto attacco nell’interpretazione della loro discrezionalità e doveri (in particolare sul danno erariale, gli obblighi di bilancio, la messa a reddito e le questioni legate alla sicurezza). La sfida è impedire che le strategie partecipative più avanzate (anche su altri temi come gli audit popolari, come quelli su debito e sanità) siano respinti dalla parte amministrativa prima o indipendentemente dalla parte “politica” delle Amministrazioni, perché le percepiscono come occasione per essere censurati e sanzionati. Questo timore è una minaccia che dissuade le Amministrazioni dal dare spazio alle sperimentazioni giuridiche;
- Essere consapevoli di che cosa significhi aggredire il campo del diritto: sappiamo di maneggiare uno strumento indispensabile, ma al tempo stesso difficile e ambivalente. Sono dunque importanti i “precedenti”: le singole parole, frasi (“usi civici e collettivi urbani”, “beni comuni emergenti”, “riconoscimento delle forme di uso collettivo”, “usi non esclusivi”, “gestione diretta e partecipata dello spazio urbano”) così come anche i richiami espliciti che possono essere riportate in modo identico negli atti amministrativi di diverse città, costruendo così un nuovo piano normativo condiviso. Anche una sola parola può creare un forte precedente. Al tempo stesso dobbiamo sapere che dietro le sperimentazioni, anche quelle più avanzate, altre forze e poteri possano reinterpretare il nostro lavoro: questo vale per ogni terreno “scivoloso”, dalle economie, all’uso creativo del diritto. Abbiamo discusso di altri strumenti nell’ambito del diritto pubblico e privato più interessanti, consapevoli che c’è chi intende sussumere queste pratiche;
- ripensare il demanio, che in molte esperienze ha favorito più la privatizzazione che l’accessibilità e fruibilità da parte degli abitanti.
Quindi, uno scambio di proposte, su cui potremmo lavorare – ciascuno/a secondo le proprie possibilità e i propri desideri – e comunque nella consapevolezza delle criticità politiche e delle sfide giuridiche che presentano tutte queste idee:
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una proposta giuridica nazionale sui beni comuni urbani da scrivere insieme;
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una risposta unitaria per emendare e implementare i regolamenti dei beni comuni in vigore in molte città;
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un dialogo da tessere tra realtà territoriali e l’Associazione Nazionale Comuni Italiani per richiedere il riconoscimento degli usi collettivi nei regolamenti edilizi e di gestione del patrimonio dei comuni italiani;
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un percorso verso la creazione di un contesto giuridico che agevoli e favorisca le forme di economie mutualistiche come zone franche di comunità;
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approfondimento dell’istituto degli accordi sostitutivi dei provvedimenti, come alternativa al meccanismo classico del bando;
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una legge che completi la disciplina sugli usi civici, che attualmente è tagliata su casi diversi dai nostri;
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analizzare la giurisprudenza della Corte dei conti, che spesso minaccia le nostre esperienze, ma non sempre. Ad esempio, alcune decisioni hanno posto un argine all’affitto a canone di mercato degli immobili del patrimonio indisponibile;
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in teoria un’interrogazione parlamentare al Ministero della Giustizia può servire a dare un’interpretazione sulle regole riguardanti i procedimenti e quindi tranquillizzare i funzionari sulla fattibilità di alcune sperimentazioni giuridiche. In questa situazione politica valutare attentamente rischi di una simile ipotesi.
Abbiamo immaginato degli strumenti operativi per agire su queste proposte:
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organizzare delle assemblee dedicate mettendo all’ordine del giorno le singole proposte;
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riconnettere la riflessione sui beni comuni urbani ad altre reti. Su questo riportiamo in plenaria sette appuntamenti nazionali:
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- 1-3 marzo, Firenze: Re.SET Firenze – Incontro fra città ;
- 8 marzo: Lotto marzo / mobilitazione antissessista e transfemminista;
- 15-17 marzo, Napoli: Fearless Cities – Città senza paura;
- 23 marzo, Roma: 23M, Marcia per il Clima e Contro le Grandi Opere Inutili;
- 26-28 aprile, S. Vito Chietino e Lanciano – incontro nazionale di Genuino Clandestino “Terra bene comune”;
- 21-23 giugno, Reggio Emilia: 10 anni dell’occupazione di Casa Bettola e commemorazione dei 70 anni della strage fascista della Bettola;
- 28-30 giugno, Mondeggi – Tre giorni per il compleanno di Mondeggi – campeggio, festa e tavoli di lavoro sui beni comuni;
- Milano: MACAO – appuntamento sulle economie con varie realtà impegnate sul fronte del mutualismo e della produzione del comune.
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ritornare su temi che per motivi di tempo abbiamo dovuto lasciare fuori da questa assemblea, come: (1) abitativo/turistificazione (es. pensare a un governo pubblico di luoghi turistici per finanziare strumenti di politica abitativa); (2) produzione di ricchezza/nuove forme di welfare. Dobbiamo prendere dei pezzi di filiere e farli in modo diverso, altrimenti gli spazi diventano gusci vuoti; (3) i beni comuni naturali.
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capire come contrastare amministrazioni sempre più spesso di estrema destra; e come agire il piano giuridico anche come forma di resistenza collettiva e mutualistica rispetto ai tentativi di repressione da parte di amministrazioni che non vogliono aprire alcun confronto “creativo”, ma solo repressivo;
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istituire dei gruppi che lavorano in modo tecnico, ovviamente non creando una commissione elitaria di esperti, ma lavorando sull’autoformazione e sulla produzione collettiva di saperi scientifici;
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identificare le vertenze che possono unirci;
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utilizzare nei rispettivi territori i processi partecipativi, portandovi le nostre pratiche e modalità.