da martedì 9 gennaio a martedì 20 febbraio | l’asilo
E ora qualcosa di completamente diverso
Esperimenti di un altro cinema d’animazione
Il mediometraggio che farà da antipasto all’ultimo film del nostro secondo ciclo, è I’m here, di Spike Jonze (Essere John Malkovich, Il ladro di orchidee, Nel paese delle creature selvagge, Her), e racconta l’improbabile storia d’amore e sacrificio fra due robot, Sheldon e Francesca.
Metropia risale al 2009, ed è il frutto di anni di lavoro del regista egitto-svedese, Tarik Saleh. In un mondo in cui il turboneocapitalismo neurologico ha trionfato, sbaragliando ogni concorrenza, e tutti i punti del villaggio globale sono interconnessi a tempo 0 da una kusturikiana fitta sottorete metropolitana, si muovono i nostri personaggi: burattini senza fili, uomini grigi quasi albini come Morloch, allampanati, scheletrici, con grandi occhi, più testa che cuore, impietosamente fotografati da questa luce ulcerosa da paesaggi boreali. Usano tutti lo stesso shampoo. Prendono tutti la stessa metro. Lo shampoo si chiama Dangst, che, tradotto dal tedesco, significa “stato d’animo d’angoscia disperante”. In uno stato di privazione sensoriale, umorale ed esistenziale, il nostro eroe, Roger, donchisciottescamente romantico operatore di call center, galleggia, consapevole, in un mondo effimero e senza vie d’uscita. Fino a che sente voce nella sua testa e si ritrova coinvolto fra teorie cospirative e perfidi sicari, in un intrico di segreti e bugie, fra i quali proverà a destraggiarsi alla meno peggio, spinto solo dal desiderio di amare ed essere riamato. Dissociazione da crollo psichico o teoria del complotto? Sicuramente, qualcosa di completamente diverso!
“E ora qualcosa di completamente diverso” (II ciclo)
I cartoni animati non sono (SOLO) per bambini.
Il cinema sperimentale non è (SOLO) per pochi eletti.
Sono solo ALTRE forme con cui gli artisti scelgono di trasmettere le loro idee, sentimenti ed emozioni.
Con questo ciclo di proiezioni vogliamo liberare il cinema sperimentale dall’etichetta che lo bolla come elitario; vogliamo restituire ai film d’animazione la dignità che meritano; rimedieremo alla miopia della grande distribuzione che, per ragioni di opportunismo economico e scarsa stima del pubblico, ne preclude la visione.
C’è un sottobosco di cinema, coi suoi piccoli e grandi gioielli, che merita di vedere la luce del proiettore. Siamo realisticamente impossibilisti e oseremo l’inosabile, il nostro intento rivoluzionario è diffondere un’altra cultura, fregadoncene del mercato, perché…
… è il possesso culturale del mondo che dà la felicità.
E ora, qualcosa di completamente diverso!
P R O G R A M M A C O M P L E T O
martedì 09/01 h 21:00
Les Astronautes di Walerian Borowczyk [Francia,1959] 12’
Anomalisa di Charlie Kaufman [USA, 2015] 90′, v.o. sott. it
martedì 23/01 h 21:00
Schody di Stefan Schabenbeck [Polonia, 1968] 7′
Akira di Katsuhiro Ōtomo [Giappone, 1988] 124′, v.o. sott. it
martedì 06/02 h 21:00
Oscurità Luce Oscurità di Jan Svankmajer [Cecoslovacchia, 1989] 7’
The Comb di Stephen e Timothy Quay [UK, 1990] 17’
Pinocchio di Gianluigi Toccafondo [Italia, 1999] 6’
Harvie Krumpet di Adam Elliot [Australia, 2003] 23′ v.o. sott. it.
Ryan di Chris Landreth [Canada, 2004] 14’ v.o. sott. it.
Walking di Ryan Larkin [Canada, 1968] 5’
martedì 20/02 h 21:00
I’m Here di Spike Jonze [USA 2010] 31′, v.o. sott. it
Metropia di Tarik Saleh [Svezia, Danimarca, Norvegia, 2009] 86′, v.o. sott. it
All’Asilo i concerti, gli spettacoli, le proiezioni, gli incontri sono ad ingresso libero. È gradito un contributo a piacere che serve ad abbattere le spese minime e a dotare gli spazi dei mezzi di produzione necessari ai lavoratori dello spettacolo, dell’arte e della cultura per portare avanti la sperimentazione politica, giuridica e culturale avviata all’Asilo.
A R T I C O L I P R E C E D E N T I
Anomalisa – Charlie Kaufman
Si ricorre all’animazione per vari motivi. Il geniale Charlie Kaufman ha fatto questa precisa scelta, insieme a quella di rivolgersi al crowdfunding, per essere libero di sperimentare. E perché, per la storia che intendeva raccontare, non ci sarebbero stati attori adeguati. Eppure è una storia apparentemente semplice: Michael Stone, un coach life deve tenere una conferenza ma, la notte prima, in albergo, il suo mondo, già pericolante, entrerà in crisi. Nulla di inedito.
Se non fosse che…
Se non fosse che l’albergo si chiama Fregoli, come il trasformista italiano che ha dato nome a una sindrome per via della quale, chi ne soffre, si convince di essere circondato da persone tutte uguali. Ecco come mai tutti i 1261 personaggi, al di fuori del protagonista, hanno lo stesso viso. E la stessa voce. Motivo della sua apatia, della sua crisi, della sua demotivazione. Tutti a parte lei. Lisa. L’anomala Lisa.
Prima di essere un film, Anomalisa è stato uno spettacolo teatrale molto particolare: praticamente solo sonoro Privo di messinscena, gli attori leggevano le battute senza recitarle, senza costumi, seduti, su un palco vuoto. Insomma, un dramma radiofonico. Non avrebbe mai potuto essere un film, perciò. Ma forse un cartone…
Questo avrà pensato Kaufman, quando ha optato per la stop motion, per dare una vita più vera del reale allo psicodramma di un uomo solo, incompreso, circondato da varianti di persone ormai omologate e appiattite come avatar allo stesso registro metallico standard, gettati in una circumdrome da criceto su ruota. L’unico in grado di vedere le pareti della greppia in cui sono costretti, è Max Stone, e questa visione lo sconvolge. E il circolo si chiude, e ritorniamo alle nevrosi di Essere John Malkovich, alle paludi della mediocrità in cui affondiamo come Artax. Tutto qui? Sì. Se non fosse che…
Se non fosse che il nostro eroe compra una bambola giapponese per suo figlio in un sexy shop. Perché? E perché questa bambola è scheggiata? E perché Lisa ha una tempia sfregiata? E perchè di tutte le lingue (oltre l’italiano) Lisa sceglie di imparare proprio il giapponese? Cosa la rende così… anomala?
Per chi sa coglierle, sono più le domande che questo cartone dispensa, rispetto alle risposte, distorcendo la realtà con iniezioni oniriche, giocando con la soglia dell’incredulità dello spettatore, per offrire, di nuovo, …qualcosa di completamente diverso.
Akira – Katsuhiro Ōtomo
Nella storia dell’animazione esiste uno spartiacque: esiste un pre e un post Akira.
Akira è un film cult, che ha segnato i tempi, quello che ha schiuso le porte dell’Occidente ai manga e agli anime, sconvolgendolo con lo tsunami del suo immaginario disturbante a sé stante. E inedito.
Per l’epoca, Akira fu qualcosa di completamente diverso. E lo è ancora.
Frutto della mente geniale di Otomo, autore del manga sul quale è basato, questo colossal dalla lavorazione leggendaria ha richiesto lo sforzo di cinque case di produzione, costringendo un esercito di animatori ad alternarsi in turni ininterrotti diurni e notturni. Pervaso da un fatalismo ineffabile e greco, contro il quale vede scontrarsi i nostri eroi, bimbi sperduti resi, come progeroidi, adulti anzitempo dai giorni di un difficile futuro passato cyberpunk, Akira permane un caposaldo, che, cassandrino, ha profetato le paure di finemillenio di un Paese, il Giappone, che negli anni Ottanta si stava rialzando solo per cadere, nuovamente, preda dei suoi démoni interiori.
Akira è tutto questo e molto altro ancora. È il monumentale affresco del tramonto di un sogno, in cui Otomo ha trasfuso le sue nevrosi, dato voce alle fobie d’un intero popolo: dallo sgretolarsi delle speranze mendaci delle macchine la cui transustanzazione anticipa l’omonimo Tetsuo dell’anno dopo, all’innocenza violata di un’infanzia stuprata di una società aggressiva e competitiva, all’alienazione dei claustrofobici e iperdettagliati monoliti babilonici della Neo-tokyo distopica.
Ma più di tutto, in trasparenza a tutto ciò, vi è lui, il grande rimosso nipponico, l’incalcolabile potenziale distruttivo insito in ciascuno di noi, la reale natura dell’uomo, incarnata da Akira stesso, un serafico bambino dagli incalcolabili poteri ESP, in grado di riscatenare l’inverno nucleare del nostro scontento, nemesi che il Giappone non si sarebbe mai scrollato di dosso, e cui Akira dà forma e sostanza. Akira è la storia di un mondo, qualcosa in seguito alla quale nulla sarebbe più stato lo stesso, e di cui, da allora in poi, tutti avrebbero dovuto temere il confronto.
• Oscurità Luce Oscurità di Jan Svankmajer [Cecoslovacchia, 1989] 7’
In una minuscola stanza, una dopo l’altra, le varie parti di un surreale corpo umano, ognuna con la propria anima, si congiungono saturando progressivamente lo spazio residuo.
• Pinocchio di Gianluigi Toccafondo [Italia, 1999] 6’
Il celebre racconto di Collodi, ripercorso nei suoi fatti salienti, in cui i profili cangianti e le espressioni spaventose dei personaggi provocano emozioni poetiche e di inquietudine.
• Harvie Krumpet di Adam Elliot [Australia, 2003] 23′ v.o. sott. it.
Questo cortometraggio narra la vita e la storia di Harvek Milos Krumpetzki, personaggio di fantasia nato nel 1922 in Polonia. Harvek è affetto dalla sindrome di Tourette e, durante tutta la sua vita, è perseguitato da una serie interminabile di eventi sfortunati; tuttavia mantiene sempre uno straordinario ottimismo ed una gioia di vivere che gli permettono di superare tutte le difficoltà incontrate.
• The Comb di Stephen e Timothy Quay [UK, 1990] 17’
È un’esplorazione del subconscio, rappresentato come una labirintica casetta abitata da una bambola animata. Una miscela affascinante di azione e animazione, The Comb (Il Pettine) è sostenuto da sensuali violini, chitarre, grida e bisbiglia, tutti immersi in uno splendido bagliore dorato. (L’immagine di apertura di questo articolo è tratta da questo film.)
• Walking di Ryan Larkin [Canada, 1968] 5’
• Ryan di Chris Landreth [Canada, 2004] 14’ v.o. sott. it.
Ryan Larkin è stato un animatore canadese che iniziò la sua carriera nella National Film Board of Canada. Con i suoi due primi lavori – Syrinx (1965) e Cityscape (1966) – mostrò da subito le sue qualità, e nel giro di tre anni ottenne fama mondiale. Nel 1969 infatti, il suo ‘Walking’ arrivò finalista agli Oscar nella sezione dedicata ai corti. Nulla importa che non vinse, ciò che davvero conta è pensare che il suo capolavoro d’animazione venne da un’idea semplicissima: schizzi colorati di persone che camminano, ognuna a modo suo, ognuna col proprio stile. Larkin impiegò due anni per finire questo breve film, sia perché perfezionò egli stesso delle nuove tecniche di pittura con inchiostro lavabile, sia perché fu assorbito dall’osservazione, mediante degli specchi che installò nel suo piccolo studio, dei propri movimenti durante la camminata.
L’ultimo lavoro di Larkin fu Street Musique, realizzato nel 1972. Ma dopo, Larkin divenne un alcolizzato. Troppa fu la pressione del successo da sopportare, ed il nome di Ryan Larkin venne presto dimenticato.
Non da tutti però.
Chris Landreth ha sempre visto in Larkin un artista di riferimento. Non si è mai dimenticato di Ryan, al contrario ha voluto raccontare la sua storia, dandogli così la gloria e la comprensione che il mondo gli aveva negato. Ha creato dunque una sorta di documentario animato che racconta, in pochi minuti, la storia sua e di Ryan in una chiaccherata tra i due artisti. Il tutto però è trasfigurato attraverso il filtro della fantasia del regista, il suo occhio interiore trasforma oggetti e persone per renderne la loro realtà intima. Landreth è riuscito laddove Larkin ha fallito: ha vinto l’Oscar nel 2005, nella sezione corti, con il suo Ryan.