Così ci raccontava un cinquantenne qualche tempo fa.
“Quando ero a scuola – correva la fine degli anni ’70 – avevo la netta percezione che essere attivisti – io lo ero, partecipavo sistematicamente a tutte le assemblee e a tutti i cortei, e non erano certo quei pochi di ora – fosse un’attività capace di generare effetti diffusi anche sulle persone inizialmente più refrattarie e impermeabili al discorso politico. Io e il mio gruppo di compagni teppisti iperpoliticizzati, in gran parte figli di operai Italsider, assistemmo in quegli anni all’arrivo, nella scuola estremista per antonomasia di Napoli, di consistenti gruppi di ragazzi dell’hinterland fermamente intenzionati – quasi dei battistrada dell’imminente riflusso – a non farsi distrarre da nulla che non fossero i propri interessi individuali di riscatto sociale, ma tanto facemmo che riuscimmo, nel tempo, a ottenere anche da loro delle prese di posizione ed una qualche forma di partecipazione alla vita politica. E non fu per nostra bravura, ma perché questa era – ancora – nell’aria, la si viveva giorno per giorno e la comunicazione politica era continua e diffusa, nonostante i limiti tecnici.”
Il raffronto con l’oggi, con questi “tempi miseri”, è apparso inevitabile, al di là di nostalgie velleitarie.
Tra quell’epoca e questa ci sono alcuni decenni di estirpamento sistematico di quella disponibilità, di quel “prestare l’orecchio” al discorso politico. Tuttavia spesso l’attivismo resta incardinato ai parametri e alle modalità nate in quei tempi, e riprodotte senza sostanziali modifiche. Il che si traduce in un autoreferenziale rivolgersi ai “movimenti” e ai suoi rappresentanti a cui di volta in volta genericamente vengono assimilati, i cui discorsi funzionano esattamente come per i mass media: parlano a chi quei discorsi li conosce già, in una spirale di riconferme che lascia spazio solo al narcisismo dialettico dei più abili. Ma quali risultati, in termini estesi, e di scuotimento delle coscienze, ottengono? diciamocelo una buona volta senza paura: vicini allo zero.
Si fa un’assemblea a sostegno dei Kurdi, vengono 15 persone, si programma anche un’azione o un’iniziativa, e dopo? quante pensiamo che siano le persone in più che avranno acquisito consapevolezza su questa faccenda all’indomani dell’una e dell’altra? ma vanno fatte, certo, che non si lasci intentata alcuna strada: siamo però consapevoli del loro significato pressoché esclusivamente simbolico, in quanto la comunicazione su internet farà molto di più e molto meglio nel diffondere notizie e consapevolezza in merito? sostanzialmente riesce a ottenere poco più che rimarcare un’appartenenza: “io, tu e tu siamo parte di quella comunità – sparuta – che si identifica in quella simbologia della denuncia”.
Altro è progettare un recupero di spazi fisici alla socialità e ai bisogni di un numero quantitativamente esteso e qualitativamente multiforme di persone; altro è, attraverso questi recuperi, mettere in moto forme di cooperazione, solidarietà, di “stare e fare assieme” e di sottrazione di spinte egemoniche che siano manifestamente e sistematicamente in opposizione all’esistente, inducendo un’abitudine a questa modalità che ESCA fuori da quell’ambito, che attecchisca nelle individualità e da esse venga esportata nella quotidianità.
Il senso politico del tutto sta esclusivamente nella pratica quotidiana di un metodo, di un atteggiamento verso il prossimo e verso la collettività: non è che questa sia una faccenda aggiuntiva o collaterale, è invece, soprattutto di questi tempi, TUTTO.
Se si blatera di indispensabilità della partecipazione ai “momenti del movimento” e poi si praticano, nel quotidiano, varie forme di prevaricazione – che siano fisiche, dialettiche, psicologiche fa poca differenza – bene, allora non è solo questione di ritenere esecrabili questo tipo di pratiche – il che implicherebbe un giudizio – ma piuttosto si tratta di riconoscere che quei momenti di “incontro / organizzazione / coordinamento”, che già hanno solo un valore / effetto simbolico, perdono anche questo e diventano, appunto, aria fritta, peraltro non di rado viziata da un’ipocrisia che nasconde meschini interessi, quand’anche essi si identifichino solo con la propria affermazione personale (nel senso di “personalità”).
Forse che la consapevolezza della drammatica “impotenza” di tutti i movimenti e delle loro azioni sia, al di là di precisi e personali obiettivi, una delle verità più difficili da mandare giù, e che ci si accontenti dei risultati del momento, ritenendoli chissà che?
Ma qua non si tratta di puntare il dito contro la inconsistenza dei “movimenti”, quanto piuttosto di riconoscere pienamente la vacuità dei tempi, e di comportarsi di conseguenza. Talvolta pare quasi che ci sia una “etichetta” da rispettare: eh, è importante essere “dentro” il movimento e partecipare attivamente alle sue chiamate. Certo, a patto però che questo significhi un qualche effetto REALE sulle modalità di relazione, che è l’unico obiettivo che si può concretamente sperare di ottenere. Se invece si tratta di “timbrare il cartellino” della partecipazione, sinceramente crediamo che valga di gran lunga più la pena impiegare energie in tutte quelle occasioni che creano, almeno in potenza, la possibilità che persone più o meno estranee ai movimenti VEDANO con i loro occhi e sentano sulla propria pelle che è possibile immaginarsi e mettere in pratica tutt’altro modo di relazionarsi e di fare rispetto all’esistente. È la costruzione, pezzo dopo pezzo, giorno dopo giorno, di qualcosa che può riguardare tutte e tutti ed essere compreso da tutte e tutti, per il tramite di un coinvolgimento tanto passionale quanto concreto, e al di là di un’idea di professionismo della politica che implica un minaccioso iter di indottrinamento nella lettura della società e di gavetta all’interno delle “dinamiche di movimento”.
Non mettere questo in cima a qualunque priorità significa prefigurare null’altro che l’immagine – distorta e miserabile in certi casi – di isolate voci isteriche che pretendono di opporsi alle sabbie mobili di una realtà, ormai mostruosa nella sua cieca violenza, che sta per fagocitarle.
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per tutte queste cose che abbiamo scritto e per quelle che ancora vogliamo fare e scrivere e immaginare, ci vediamo sabato 5 settembre all’Asilo per l’assemblea #MassaCritica